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«Avrei voluto fargli male. Ucciderli magari. Padre e madre. A un certo punto, stremato, ho semplicemente smesso di pensarli. Da vivi e da morti. Non faceva una grande differenza». Se arriva, quel momento è una benedizione. Ricacciati indietro al nastro di partenza, lì dove i destini sembravano già scritti, possiamo ripercorrere la nostra storia e nelle maglie un po’ più larghe della trama della vita rivivere gli episodi che l’hanno resa unica e irripetibile. Emme, figlio dell’imperizia, è il protagonista di questo memoir in forma di romanzo. Un romanzo di formazione, una storia famigliare che si consuma tra case popolari, cortili pieni di bambini, la legge primordiale del branco, le botte con le spranghe di cartone compresso, l’umiliazione dei no delle banche e perfino a volte la negazione di un pezzo di pane, la famiglia allargata del quartiere come paracadute. Siamo a Roma, Garbatella. A dar l’avvio alla narrazione, la vicenda intima di una gravidanza non voluta, di genitori poco più che adolescenti. A seguire, una sequenza di eventi densi di rovesci, di desideri mai pronunciati, di famiglie con poco amore e tanta ignavia. I legami fortissimi tra bande di ragazzini che tentano la sopravvivenza. Perché si può essere branco senza essere iene. Emme viene al mondo a metà degli anni Sessanta, cresce con i nonni, tradizione comunista, antifascisti, classe operaia con ancora addosso l’odore della Resistenza. In più punti la sua storia personale incrocia la grande Storia, le Fosse Ardeatine, con il bisnonno Enrico Mancini tra le vittime della furia nazista; la contestazione studentesca della Pantera; l’omicidio di Vincenzo Paparelli in un derby Roma-Lazio tragicamente indimenticabile e quello di Valerio Verbano a Montesacro, la storia che non guarisce e che non passa. Emme vive la strada, le opportunità, i pericoli, fino all’adolescenza, in cui riuscirà a disarcionare un destino che pareva già scritto. La lettura e la militanza politica come un nuovo modo di stare al mondo. Fino al colpo di scena finale.

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