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Teatro

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Un libro che ricrea tra le sue pagine lo choc di uno spettacolo di Carmelo Bene, trascinandoci verso «sensazioni impercepibili», un «nulla pieno» che ci colma e ci fa traboccare, e che infine è «un tutto che non ammette discorso». La camicia dev’essere comoda, né larga né stretta. Semmai un po’ larga, soprattutto al colletto, e anche all’attacco delle maniche. Evitare la seta, è troppo calda in scena. Per i polsini è diverso, meglio stretti, cinque bottoni, sempre dispari. Il polsino non deve scendere dalla manica oltre il centimetro, il centimetro e mezzo, mai di più, quel bianco si vede da ogni posto, in qualunque teatro, anche all’aperto, esaltato com’è da quel frullo riccio che andrà svolazzando per aria.
Un palco buio, un volto bianco, gli occhi come pozze nere. Le movenze scattanti, la voce profonda e le parole perentorie di Carmelo Bene. Ciò che la sua bocca carnosa, erotica, pronuncia è il frutto di un procedimento che senz'altro appartiene a una forma rivoluzionaria di arte. Poesia? Sì, quella di Dante, Majakovskij, Shakespeare. Eppure la carica è diversa, contemporanea; in ogni performance brucia il fiato del tempo presente, vibra un furore corporale, pancreatico. L'opera di Carmelo Bene ha attraversato un'intera epoca e ha segnato come poche altre le arti performative del nostro paese. Jean-Paul Manganaro ne compone un ritratto al vivo: Oratorio Carmelo Bene è romanzo, autobiografia, saggio letterario e tutte queste cose insieme. È l'opera che meglio può inglobare l'arte di Carmelo Bene perché è anch'essa arte, scrittura dalle infinite possibilità, lingua vivissima e materiale, eccesso e sfrontatezza.

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